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Il trauma dell'abbandono, di Claudia Artoni Schlesinger

03.10.2013 18:51

Tratto dal sito https://www.nontogliermiilsorriso.org/drupal/

 

 

l'’emergere del trauma e le difficoltà delle identificazioni.  

Prologo"I bambini persiNelle notti nei boschii bambini persi chiamavano per essere trovati. Non c’erano le stelle?Le stelle erano gli occhi dei lupi. Non c’era la luna?La luna era le fauci dei lupi. I bambini persi erano spaventati?Sì, chiamavano tanto.Svegliavano gli animali addormentati."(Vivian Lamarqe)

Ero su un treno. Io guidavo. Il treno passava sottoterra al buio e andava andava. Fuori si vedevano occhi di lupi, ma io continuavo ad andare fino a che arrivavo alla luce. Là c’erano i miei genitori (quelli adottivi). Sul treno c’erano anche i miei genitori naturali. Il sogno di Davide raccontato a 5 anni alla madre adottiva. Era stato adottato un anno e mezzo prima.

Ho riportato all’inizio di questo lavoro una poesia di una nota poetessa che parla di bambini persi, bambini adottivi, e un sogno di un bambino adottivo. Entrambi descrivono un’immagine terrificante: gli occhi dei lupi nel buio. In questo lavoro non parlerò tanto di bambini, quanto di adolescenti adottivi che, però, si portano dentro l’immagine terrificante dell’abbandono subito da parte di adulti diventati lupi nel buio.

Abbiamo pensato di intitolare questo incontro: La ferita dell’abbandono, perché l’esperienza con il mondo adottivo ci ha convinti sempre di più dell’importanza che, per i figli adottivi, riveste, durante l’arco di tutta la vita, il fato di essere stati abbandonati.

Occuparsi di famiglie adottive comporta quindi la necessità di conoscere quali possano essere gli effetti di un trauma anche originario sullo sviluppo di queste persone.

Solo un cenno per dire che, inoltre, quasi sempre un trauma c’è anche nella storia dei genitori adottivi, che adottano per non essere stati in grado di generare figli naturali.

La fecondazione artificiale, lungi dall’aver risolto felicemente il problema, provoca spesso altre situazioni traumatiche di cui non è il caso di trattare in questo contesto. È un problema che meriterebbe un’attenzione particolare e specifica.

È sufficiente che noi oggi teniamo presente come anche i genitori adottivi siano spesso persone sofferenti o che hanno sofferto per una loro diversità. Raramente si danno casi di coppie che adottano avendo già figli propri. In questi casi la motivazione è spesso permeata di sensi di colpa: “siamo così fortunati che è giusto che diamo qualcosa della nostra fortuna ad altri che non l’hanno”.

Ma tutto questo è un’altra storia di cui oggi non abbiamo il tempo di parlare. È però importante ricordare che l’adozione è spesso, se non sempre, l’incontro di più traumi diversi.

Cosa si intende per trauma

Il termine Trauma, come recita l’Enciclopedia di psicoanalisi di Laplanche e Pontalis, viene dal greco e significa una ferita grave con effetti permanenti.È importante, nel nostro lavoro, indagare dentro, ossia nella mente e nei sentimenti di questi ragazzi, quale importanza continui a rivestire nel loro essere persone, il fatto dell’abbandono. Non importa se le ragioni che hanno provocato gli allontanamenti di figli dai genitori naturali possano essere state giustificate e talvolta persino provvidenziali. Resta il fatto che il bambino, la cui personalità si va formando, sente la necessità di una completezza di riferimenti, di conoscenze, quando sia possibile, delle vicende della sua origine particolare. E questo perché l’immagine mentale della propria origine costituisce un elemento fondamentale del suo senso di identità.

Dice Kaes (2002) a proposito dell’identità: è un problema che ha a che fare con la possibilità di riconoscersi come appartenenti a qualcosa, qualcuno da cui si ha avuto, appunto, origine.Il senso della propria origine, quindi, insieme all’ambiente che ci ha allevato e che continua a circondarci con le sue relazioni e i suoi affetti, è essenziale per la completezza della propria identità.Se non si conosce, o non si può conoscere la propria radice, si è come un tronco tagliato. Così si rappresentava un bambino adottivo in un disegno fatto durante una consultazione.

Una ferita così terrificante, come descrivono la poesia sopra citata e il sogno del bambino, non guarisce mai. “Si può al massimo cicatrizzare, ma certo non guarire”, mi diceva un padre adottivo parlando della storia tristissima di uno dei suoi figli.

L’abbandono, per il trauma che determina, è suscettibile di provocare, anche a distanza di molto tempo, reazioni spesso incomprensibili, che però, se approfondite, si rivelano tuttora collegabili al trauma originario.Il trauma, ci dicono gli autori che se ne sono occupati, produce un evento non traducibile in parole (Giaconia e Racalbuto, 1997). Ossia chi lo ha subito non lo può raccontare.

Il trauma, riprendendo Laplanche e Pontalis, “è un evento nella vita del soggetto, caratterizzato dalla sua intensità, dall’incapacità del soggetto a rispondervi adeguatamente, (...) dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica”.

Si può dire, ricorrendo anche a teorie non strettamente psicoanalitiche, che un evento traumatico determini una situazione psichica che non permette l’elaborazione. Si intende con questo termine indicare una capacità di creare collegamenti nella mente tali da rendere l’evento parte armonica dell’apparato psichico.Cioè, per quello che qui ci interessa, tali da non provocare comportamenti anomali non comprensibili in uno sviluppo normale.Sono eventi, continuano Giaconia e Racalbuto, che non diventano storia, ossia non sono traducibili in parole.

In uno studio sui figli dei desaparecidos in Argentina gli autori descrivono la condizione psicologica di queste persone dicendo che “essi non possono dare un senso ai frammenti di ricordo che emergono, non possono neppure ricordarli da un punto di vista cognitivo, eccetto per le frammentate percezioni visive che non possono integrare affettivamente nella loro personalità”.

Un altro pensiero importante per il discorso sull’adozione è quello contenuto in un articolo della Dupont (nel libro su Ferenczi curato da Borgogno) che, riferendosi alla teoria classica del trauma secondo Freud e Ferenczi, afferma che esso si rende tale in due tempi: 1) nel momento dell’avvenimento traumatico; 2) diventando patogeno quando è disconosciuto dall’ambiente circostante.

Questo processo in due tempi diventa importante nell’adozione quando, oltre all’abbandono iniziale sempre traumatico, venga negato il passato, l’origine diversa del bambino. “È come se fosse nato ora e gli ho cambiato nome.”

L’emergere del trauma

Come tale può rimanere nascosto nella psiche per anni per esplodere poi in modo difficilmente controllabile.Risulta quindi evidente, a chi si occupa di adozione, come alla base dei problemi che si pongono nei trattamenti dei protagonisti dell’adozione, emerga sempre, prima o poi, con caratteristiche traumatiche, il tema dell’abbandono e il timore, spesso manifestato negli agiti, di trovarsi a ripetere la stessa esperienza, ossia di essere di nuovo abbandonati.Con qualche accenno durante gli anni precedenti, la crisi vera e propria si verifica quasi sempre nell’adolescenza.

È strano questo? Certamente no. Tutti sappiamo, e la relazione di Mariapia Gardini ne tratta specificamente, che nell’adolescenza avviene il cambiamento fondamentale di ogni individuo che può essere espresso nella domanda “Chi sono io?” E chi sono io come persona separata anche dai miei genitori naturali o adottivi che essi siano.

Il processo di individuazione, come sappiamo, è accompagnato da un profondo cambiamento della stessa struttura del corpo, dall’insorgere massiccio dei propri impulsi, anche sessuali.Una vera e profonda rivoluzione, che è già complessa in qualsiasi adolescente, anche quando questi conviva con i propri genitori naturali, ma che si complica enormemente, dopo un abbandono, nel figlio adottivo, che deve fare i conti con una doppia immagine genitoriale: quella reale, costituita dai genitori adottivi, e quella fantasmatica, costituita dai genitori naturali.

Recentemente un bimbo di otto anni, adottato quando aveva tre anni circa, si è rivolto alla mamma adottiva, con la quale ha un ottimo rapporto, dicendole: “Tu non sei la mia mamma vera.” Reazione della mamma che si è sentita ferita: “Come no, sono quella che ti cura, ti cresce, ti nutre, ti veste, ti ascolta!” “Sì – dice il bambino – ma non sei quella della pancia!” La mamma risponde: “È vero, capisco che vorresti sapere come è fatta la mamma della pancia. Ma se tu la vedessi, cosa le chiederesti?” E subito il bambino: “Le chiederei perché mi ha abbandonato!”

Questa mamma ha saputo rispondere al figlio cogliendo il punto focale della domanda e, quindi, della sofferenza.Possiamo sperare che la sua crisi adolescenziale non sia troppo violenta?

Le difficoltà delle identificazioni

Abbiamo parlato nel titolo anche della difficoltà delle identificazioni. Cosa voleva dire?Un processo che parte da lontano, dalle domande tipo quelle di quel bambino. “Perché sono stato abbandonato?” Domanda a cui raramente può essere data una risposta soddisfacente. D’altra parte la risposta, anche se storicamente esatta, non si dimostra sufficiente a superare eventuali difficoltà che si manifestino anche in comportamenti anomali, che appaiano anche legati al desiderio di conoscere le proprie origini.Comportamenti anomali, perché sembrano volti a provocare nuovamente la stessa antica esperienza di essere rifiutati ed espulsi dalla nuova famiglia in cui si trovano.

I comportamenti messi in atto infatti potrebbero essere tali da condurre alla crisi se non addirittura alla rottura dei rapporti affettivi attuali, e a far pensare a identificazioni patologiche con un oggetto interno non conosciuto e vissuto come deteriorato.

Le manifestazioni sono di vario genere: vanno dalle diffusissime difficoltà scolasti che a un aumento dell’aggressività contro i genitori, al compimento di atti potenzialmente, se non apertamente, antisociali.Spesso, ad esempio, sono furti compiuti a danno dei genitori stessi, ma non solo. E questo, secondo la nostra esperienza, è un comportamento anomalo molto frequente, capace di creare grandi turbamenti in famiglia e gravi rifiuti se i genitori non vengono aiutati a comprendere il significato di atti apparentemente incomprensibili, ma che nascondono, invece, richieste affettive importanti.

In questi momenti si riattiva quindi il tema dell’abbandono agito e non pensato. Ma perché l’abbandono è una ferita, dice la nostra presentazione, indelebile? Perché ha a che fare con un sentimento profondo che coinvolge l’immagine di sé.L’abbandono, in modo inconsapevole, è sentito come prova di un rifiuto subito perché non si è una persona degna di amore e, quindi, di appartenere a quella famiglia, a quei genitori. Come se il ragazzo pensasse: “Non posso essere stato abbandonato se non per la ragione che nessuno, i miei genitori naturali per primi, pensava che valesse la pena occuparsi di me”.

Il bambino di cui ho riferito sopra può parlare con la mamma adottiva e dire cosa pensa molto presto. Quanti ragazzi adottivi invece non trovano lo spazio per porre simili domande? Parlare può essere interdetto non apertamente, ma inconsapevolmente, dal messaggio implicito dei genitori adottivi: “Se mi fai queste domande significa che desidereresti abbandonarmi! Di questo non si deve parlare, perché distruggerebbe i tuoi genitori.”

Possiamo sperare che l’apertura di un dialogo continuo tra figlio e genitori nasca e si sviluppi come una consuetudine duratura, accompagnando l’avvio e lo sviluppo del rapporto adottivo e permettendo così un migliore assorbimento del trauma dell’abbandono, capace di evitare, o quantomeno di attenuare, le violente crisi adolescenziali?È su questa ipotesi, e su questa speranza, che portiamo avanti il nostro lavoro con particolari trattamenti che si rivolgono soprattutto ai genitori adottivi.

La scelta di cercare di risolvere i problemi dei figli attraverso i genitori e, semmai, solo più tardi, se appare indispensabile, coinvolgere i figli, nasce dalla profonda convinzione, ormai largamente condivisa (Vallino, 2002; Badoni, 2004) che sia alla competenza dei genitori che dobbiamo rivolgerci per favorire prima la costruzione e poi il consolidamento di legami mentali affettivi che permettano il superamento delle inevitabili crisi famigliari.È sempre, infatti, la famiglia nel suo complesso soggetto attivo delle crisi che si presentano via via.

Adozione come costruzione di legami mentali affettivi

Cosa è quindi l’adozione? È, prima di tutto, un istituto giuridico che ha come scopo di dare una famiglia a un bambino che non l’ha e, anche, lo sappiamo bene, di dare figli a coppie altrimenti sterili. Poche volte chiedono di adottare coppie che hanno già figli naturali. Dal punto di vista psicologico è invece un modo particolare di creazione di legami affettivi-mentali di tipo familiare, genitori e figli, con sue caratteristiche peculiari. Infatti, l’atteggiamento mentale e affettivo dei genitori nei confronti di un figlio adottivo è necessariamente differente rispetto a quello verso un figlio naturale, anche se ogni tanto si sente affermare il contrario.

Differente, e non potrebbe essere diversamente, perché il figlio adottivo (Arrigoni, 2002) viene da fuori, non è generato nella famiglia, è, a tutti gli effetti, uno straniero.È necessario sottolineare che parlando di straniero non si intende indicare il bambino nato in altro paese dall’Italia, ma lo straniero che, venendo da fuori, potrebbe anche provenire dalla porta accanto.Algini (2003), in un suo libro recente, parla anche del figlio naturale come di quell’estraneo che pure ci appartiene così profondamente.

La famiglia è un corpo particolare, con le sue caratteristiche specifiche; ogni famiglia è diversa dalle altre, come tale può generare al suo interno reazioni di rigetto del tutto simili a quelle che si determinano in un organismo che subisca un trapianto d’organo.

Sappiamo che è possibile che alcune adozioni falliscano, ossia che il bambino, o più spesso l’adolescente, venga restituito. Dire che un bambino viene restituito è un’espressione molto cruda, come si parlasse di un oggetto e non di un essere umano, oltre che inesatta. Infatti a chi viene restituito?Non alla famiglia di origine, essendo ormai un figlio a tutti gli effetti della famiglia adottiva. Quindi finisce per aumentare una popolazione di adolescenti disadattati che abitano le comunità.E poi cosa succede? Può diventare un grande problema sociale.

L’interrogativo che ci si pone, quindi, è il seguente: sarà possibile evitare, o cercare di farlo, che si determinino all’interno della famiglia quegli anticorpi che portano al rigetto?

Per tentare di compiere questa operazione credo sia necessario chiedersi quali siano gli elementi costitutivi di una famiglia.La risposta più ovvia è che una famiglia può dirsi costituita attraverso la costruzione, che avviene in una vita di relazioni comuni, di legami mentali affettivi tra coloro che la compongono.Il fatto che si ritenga diverso l’atteggiamento dei genitori nei confronti dei figli adottivi non significa che i legami che si creano tra genitori e figli non siano legami altrettanto importanti e forti di quelli coi genitori naturali, ma soltanto che sono diversi nella loro origine.

Sintomi rivelatori di malessere psicologico

Ci si chiede spesso come siano individuabili precocemente i sintomi dei disagi nei ragazzi adottivi.Uno dei primi segnali che rivelano un disagio nei ragazzi adottivi sono le difficoltà scolastiche quasi ubiquitarie. Sono spesso causa di scontri e conflitti coi genitori. Non potendo credere che tutti, o quasi, i ragazzi adottivi siano poco dotati intellettualmente è necessario cercare di capire meglio le ragioni di una difficoltà così diffusa.

La generalità del problema fa pensare che si tratti di carenza di qualcosa che non riguarda la sfera intellettuale, anche se ha ripercussioni sulle capacità cognitive dei ragazzi. Se non fosse così come si spiegherebbero tanti fallimenti? O forse sarebbe meglio parlare, anziché di “fallimenti”, di “insuccessi”.

Una prima ipotesi parte dalla evidente constatazione dell’esistenza di un’inibizione alla conoscenza, ma determinata da cosa e a conoscere che cosa? La nostra attenzione è stata attirata da un insuccesso scolastico particolare: molti di questi ragazzi non imparano, o rifiutano di farlo, la storia.Il collegamento più spontaneo è con la storia personale del ragazzo adottato. Sarebbe un’ipotesi plausibile che le difficoltà siano legate all’impossibilità di conoscere la storia delle proprie origini?

Analizziamo alcuni episodi riportati dai genitori di bambini messi in grave difficoltà dalla richiesta dell’insegnante che, per iniziare l’insegnamento della storia, invitava i bambini a fare un breve resoconto della loro storia delle origini o, in alternativa, a fare un ritratto della mamma.

In entrambi i casi, con grande stupore e disappunto dei genitori, i ragazzini non avevano scritto né disegnato nulla, oppure i disegni erano costituiti da personaggi senza volto.

(Flash clinici eliminati perché troppo riconoscibili)(I casi eliminati di cui ho parlato in precedenza, riguardano i primi segnali di difficoltà scolastiche che si possono manifestare nelle richieste da parte degli insegnanti di compiti che hanno a che fare con la “storia” dei bambini che loro non conoscono. Simili richieste mettono in moto nell’animo dei bambini conflitti importanti relativi al loro sapere e non sapere. Dalla capacità dei genitori di rendersi conto di queste difficoltà dipende la possibilità per i figli e i genitori con loro di: costituire la storia comune che si deve costruire nella vita tra genitori adottivi e figli adottivi. Era emersa):Un’immagine senza volto che deve essere comunque integrata con quella dei genitori adottivi, ma che comporta un difficile processo di lutto per la perdita subita.Per comprendere questi processi è necessario mettersi in contatto con qualcosa di profondo che è nel mondo interno dei ragazzi adottivi come un residuo di elementi di esperienze appartenenti ai primi periodi della loro vita che, nel rapporto col terapeuta, o con i genitori adottivi, può a poco a poco venire alla coscienza, assumere una forma e poi un significato.

Cenni alle teorie di riferimento

A questo proposito in questa sede sarà fatto solo un cenno alle teorie che sembra possano appoggiare l’ipotesi che nell’inconscio dei ragazzi adottivi sia depositato un qualcosa che appartiene alle loro prime esperienze sensoriali e che può riemergere in determinate circostanze.

Già Freud (1915) parlava di immagini mnestiche come depositi sensoriali che si può ipotizzare esistano nell’inconscio. S. Maiello fa l’ipotesi di un proto-oggetto sonoro che si costituirebbe già nel feto all’ascolto della voce materna.

Questo proto-oggetto sarebbe il precursore dell’oggetto materno che, nella sua compiutezza, si realizzerà, invece, solo dopo la nascita.Il suono, la melodia, il ritmo della voce materna, il suo comparire e scomparire sarebbero alla base della formazione del linguaggio e di una prima forma di separazione che permetterebbe una proto-relazione dove “l’uno deve diventare due”, dice la Maiello.

Di queste proto-esperienze, dice sempre S. Maiello, possono essere conservate delle memorie nel primo costituirsi del sé del bambino.M. Mancia (2003), in alcuni lavori in cui intende sottolineare “la convergenza di due discipline: le neuroscienze e la psicoanalisi”, si occupa in particolare della memoria relativamente al concetto di inconscio.

La neuropsicologa, dice l’a., ha di fatto dimostrato che nel nostro cervello operano due sistemi di memoria a lungo termine: “la esplicita o dichiarativa e la implicita o non dichiarativa.”La prima è cosciente e si riferisce a episodi significativi della nostra vita, la seconda invece a esperienze non coscienti e non verbalizzabili che hanno a che fare con le prime esperienze sensoriali riconducibili alla “dimensione affettivo-emozionale relativa alle prime esperienze del bambino con la madre e con l’ambiente in cui si nasce.”

L’argomento meriterebbe un approfondimento ulteriore e non è questa la sede per farlo.Un accenno sembra però importante per affrontare, sia pure per sommi capi, la tesi che qui si cerca di portare avanti, secondo la quale sono proprio i depositi, per adoperare l’espressione di Mancia, giacenti nell’inconscio non rimosso, che, venendo alla luce nella mente dei ragazzi adottivi possono determinare, se non raccolti e ascoltati, la mancata elaborazione di un trauma non cosciente, ma che agisce in profondità e determina i comportamenti che abbiamo chiamato anomali.

Come è già stato detto, tutti i ragazzi adottivi hanno subito traumi nei primi tempi della loro vita, che sono alla base e la causa dell’abbandono, alcuni con maggiori altri con minori conseguenze a seconda degli avvenimenti che li hanno condotti ad essere abbandonati. Tutti conosciamo la terribile piaga dei bambini “di strada”, ossia trovati abbandonati per strada. Anche questi bambini arrivano in Italia per essere adottati.

Rappresentazioni immagini genitori

L’esperienza, confermata dagli studi che ho citato, ci ha portato sempre di più alla convinzione che non è affatto la rivelazione e, quindi la conoscenza storica, l’evento determinante per la costruzione del sentimento del sé dei ragazzi. Questa conoscenza non può essere raggiunta, nella maggior parte dei casi, da un recupero della memoria, dato lo stadio di sviluppo mentale che avevano raggiunto all’inizio del rapporto adottivo. È però importante qualcosa che ha a che fare col mondo interno del bambino prima e dell’adolescente poi.

Il bambino e poi l’adolescente adottivo, come già sottolineato, deve costruire il proprio sé, il proprio senso di identità, i propri oggetti interni, con un lavoro più complesso di quello di un figlio naturale. Infatti si trova prima di ogni altra cosa nella necessità di dare un volto ai propri oggetti fondamentali, i genitori e, per farlo, deve riuscire a integrare nel sé le rappresentazioni delle immagini dei genitori adottivi combinate con quelle, sia pure solo fantasmatiche, dei genitori naturali.

Si è citato prima Kaes (2002) a proposito dell’identità nel punto in cui sottolinea l’importanza di riconoscersi come appartenenti a qualcosa, qualcuno da cui si ha avuto, appunto, origine.D’altra parte, dato che il processo di creazione di legami mentali affettivi, proprio perché in un legame sono coinvolti due poli, non può essere compiuto solo dal bambino prima e dall’adolescente poi, è necessario che i genitori adottivi partecipino alla costruzione di un mondo interno che deve, come è in ogni rapporto genitori-figli, appartenere a tutti i partecipanti della nuova famiglia.

(Recentemente diceva spontaneamente una madre adottiva di figli ormai adulti: “Se non c’è dentro i genitori questa convinzione della presenza anche degli altri genitori non si può affrontare la vita coi figli adottati.”)

Se quindi è necessaria la relazione per la costituzione delle rappresentazioni mentali, è sulla relazione madre-padre/figlio che è necessario operare, perché si costruisca nel bambino che diventa poi un adolescente un mondo interno integrato che partecipi di quello dei genitori e viceversa. 

Info

Scritto da: 

 Claudia Artoni Schlesinger

© 2004 "Centro Benedetta D’Intino: A difesa del bambino e della famiglia", per gentile concessione.

Il testo della conferenza è stato epurato dei casi clinici, per ovvi motivi di privacy. Dove è stato possibile, la dott.ssa Artoni Schlesinger ha provveduto personalmente a intervenire con una nota

esplicativa.